L’abbecedario di BEHONEST: H come Human Resources
- 21 Giugno 2021
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A un livello puramente indicativo, possiamo definire le Human Resources (da ora HR) come l’insieme delle persone che a vario titolo prestano attività presso un’organizzazione. Una definizione semplice per indicare una realtà vitale ed estremamente complessa: le organizzazioni sono fatte innanzitutto di persone, e il rapporto tra il sistema organizzativo e le singole persone è reciproco e dinamico, con un’influenza continua in una direzione e nell’altra.
Al fine di governare questi fenomeni ed indirizzarli a una condizione benefica tanto per l’organizzazione quanto per i suoi singoli componenti, si ricorre all’HR management (HRM), una funzione strategica che determina in somma parte il grado di successo di una realtà organizzativa, sia essa un’impresa o un’associazione.
L’HR management si occupa ovviamente delle basi del lavoro – trattamento economico e sicurezza sociale, DPI e rappresentanza – ma va ben oltre, occupandosi di temi quali la motivazione e la partecipazione del personale, aspetti che, soprattutto nell’ambito del terzo settore, occupano un ruolo fondamentale, dato il valore che il commitment assume all’interno di queste organizzazioni.
Motivazione e Commitment
La priorità degli obiettivi di impatto sociale, rispetto alla generazione di utili, pone il settore non profit in una posizione di teorico vantaggio in materia di HRM, ed in particolare in materia di motivazione del personale: la maggior parte degli individui che si propongono di lavorare per una realtà non profit lo fanno perché spinti dal desiderio di fare qualcosa di utile per la comunità e – dal punto di vista della motivazione del lavoratore – il fatto che l’organizzazione persegua un obiettivo sociale può agire da “filtro”, agevolando l’accesso al lavoro per le persone più committed rispetto alle finalità dell’organizzazione.
Tuttavia, questo vantaggio è controbilanciato da alcuni rischi specifici per il settore, derivanti proprio dal suo impegno per il benessere della società.
- Distress delle risorse umane: l’elevato tasso di commitment del personale porta spesso a una trascuratezza nell HRM, quando l’ente – con un comportamento più o meno consapevolmente opportunistico – fa affidamento sul coinvolgimento valoriale dei lavoratori al punto da trascurarne i diritti essenziali.
Paradossalmente, ciò avviene con maggiore frequenza nelle organizzazioni “moralmente orientate” come quelle che compongono il terzo settore, perché:
– le logiche di appartenenza valoriale e di adesione alla mission, che hanno un ruolo fondamentale nella dinamica interna a questi enti, rischiano di sostituire (invece che integrare) quelle di produttività e soddisfazione del lavoratore.
– le generali condizioni di scarsità di risorse in cui opera il terzo settore tendono a scoraggiare investimenti in welfare aziendale, adeguamenti salariali, formazione… con l’effetto di agevolare le dinamiche distorsive di cui sopra e la ricerca di giustificazioni “ideali” a una cattiva gestione delle risorse umane.
- Conseguentemente, c’è il cosiddetto rischio di “check out”, ovvero di boicottaggio passivo, più o meno consapevole, nei confronti della propria organizzazione. Questo fenomeno, comune nel settore profit quando le condizioni di lavoro diventano non soddisfacenti, non risparmia il non profit. Questa “protesta”, più o meno esplicita e consapevole da parte del lavoratore ( Chris White_TedXAtlanta) provoca una riduzione dell’efficienza e della produttività del lavoratore e quindi dell’organizzazione stessa.
Quando questa rottura avviene nel non profit, è radicale, perché implica la frustrazione delle aspettative di un lavoratore altamente motivato sin dal principio, e rappresenta quindi un fattore di malessere importante per il lavoratore, e un grande “spreco” per l’organizzazione. - Rischi reputazionali: la vocazione sociale degli enti non profit ha l’effetto di rendere molto evidenti eventuali contraddizioni rispetto alla gestione del personale. Un trattamento non equo del personale, in un ente che persegue l’obiettivo del bene comune, oltre a rappresentare un vulnus nell’organizzazione stessa, la espone a forti rischi di reputazione, inaccettabili per soggetti che spesso dipendono economicamente anche da donazioni e rapporti con enti pubblici e enti filantropici.
Partecipazione
La maggior parte degli enti non profit prende le proprie decisioni sulla base di meccanismi democratici, secondo i principi dell’associazionismo. Si verificano pertanto anche situazioni di sovrapposizione tra la base sociale e i componenti dell’organigramma.
Per questo motivo, in enti che presentino questa sovrapposizione (quali le APS, o le Cooperative Sociali) è vitale la presenza di una funzione HRM, al fine di preventire:
- conflitti di interesse in generale;
- presenza di distorsioni dei meccanismi democratici a svantaggio della rappresentanza dei lavoratori o di alcune tipologie di lavoratori;
- trattamenti salariali dei lavoratori discriminatori in base al loro “peso politico” all’interno dell’ente.
La partecipazione attiva e normata da regole chiare e trasparenti è una componente fondamentale del benessere del lavoratore, ed in questo senso una buona funzione HRM può agire – nel profit come nel non profit – da contrappeso alla Direzione dell’Ente, a tutela dello staff, arrivando – nel terzo settore – a influire positivamente sulla vita democratica dell’organizzazione.
Costi di gestione: un bias da superare
Non è raro assistere ad uno sbilanciamento delle spese degli enti a favore di sempre crescenti costi di gestione del personale. Ciò avviene in particolare nel settore della cooperazione, che considera la generazione di occupazione uno dei suoi obiettivi sociali, con il rischio di privilegiare un approccio al lavoro quantitativo rispetto ad uno “qualitativo”: nascono così realtà con numerosi dipendenti, contratti tendenzialmente deboli e inquadramenti bassi, e costi di gestione del personale elevati e difficili da abbattere.
Questo fenomeno si scontra con una importante realtà: chi investe o dona ad un ente non profit tende a preferire che il proprio denaro venga utilizzato per le attività dirette dell’ente piuttosto che investito in costi di amministrazione (Strategic Human Resources management in non profit organisations).
Questo bias contribuisce a una generale condizione di remunerazione inferiore per chi lavora nel settore non profit rispetto a chi lavora in un’azienda profit.
Un HRM professionale come parte integrante della mission
Le organizzazioni non possono puntare sull’attrazione di talenti basandosi unicamente sulla propria buona causa, tanto più in un contesto in cui la prospettiva di una remunerazione inferiore porta inevitabilmente il settore non profit ad avere una minore attrattiva per i lavoratori specializzati (Dan Pallotta: the way we see charity is dead wrong). Una remunerazione equa del personale oltre ad un’adeguata visione della gestione delle risorse umane è essenziale perché il terzo settore possa attrarre nuovi talenti che aiutino a farlo crescere.
Investire nella gestione del personale non significa solo investire in stipendi più alti che possano attrarre i talenti migliori. Significa investire in politiche di formazione, di partecipazione del personale alla vita dell’ente e, in generale, nel benessere generale dei propri lavoratori con il fine strategico di far crescere il proprio ente acquisendo e facendo crescere le persone che lo compongono, le sue Human Resources.